Il potere degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale sta diventando oggetto di disquisizione da parte di eminenti giornalisti e scrittori italiani, che fortunatamente scrivono testi seri e appassionati, anziché scaldare le poltrone di rumorose trasmissioni TV che regalano un attimo di notorietà e il titolo di opinionista a qualsiasi bellimbusto o bellimbusta dalla lingua sciolta.
Sul Corriere della Sera di venerdì 14 novembre, Severino Salvemini scrive un brillante articolo intitolato: “Il rischio della pigrizia cognitiva“.
Il giornalista non fa altro che analizzare lo strano rapporto che si è instaurato negli ultimi anni fra quella parte di popolazione ancora dedita alla lettura e alla scrittura (percentuale molto bassa) e l’impareggiabile e insostituibile ChatGPT.
Salvemini inizia citando Crepet, che a sua volta scrive a proposito del suo nuovo libro: “Nessuno dei contenuti presenti nelle righe successive proviene dall’intelligenza artificiale“.
Di che cosa ha paura Crepet, si domanda Salvemini?
“Il timore nascosto nell’esergo è quello di una eccessiva delega cognitiva e di una possibile atrofia del nostro pensiero critico, che offre invece le opportunità agli esseri umani di esercitare il proprio giudizio e di prepararli ad affrontare le situazioni complesse e impreviste”.
Quando ChatGPT era solamente una mera invenzione che apparteneva ai film di fantascienza, il cervello umano era impareggiabile nel selezionare gli argomenti nel mare magnum del suo archivio, compararli, trovare le differenze, aggiungere commenti e trovare nuovi riferimenti, e tutto ciò in pochi secondi. Il cervello umano era ed è la più grande intelligenza artificiale mai vista fino ad ora. Esso seleziona le notizie, riesce a individuare quelle false se è ben allenato; il cervello è brillante, non è un processore che spara nozioni come se fossero caramelle al Luna Park. Allora perché lasciamo alla concorrenza, all’inanimata e anche antipatica ChatGPT, il potere di sostituirsi al nostro cervello?
La risposta la troviamo nel titolo dell’articolo di Salvemini: il rischio della pigrizia cognitiva.
Facciamo un esempio.
Quali sono le più grandi metropoli del mondo in termini di numero di abitanti? Ogni cervello a cui viene posta questa domanda inizia a processare una risposta individuale, andando a ripescare nelle esperienze e nella memoria del passato. Un appassionato viaggiatore metterà in fila le città ripensando ai suoi viaggi. “Le città indiane sono popolose, ma anche quelle del Sudamerica sfiorano le dimensioni di megalopoli,” penserà, ricordando i formicai umani di Mumbai e di Città del Messico; e poi ci saranno i ricordi di scuola, il documentario visto su Focus, una guida turistica letta prima di partire. Forse la classifica non sarà quella esatta, ma il cervello del soggetto è stato sollecitato a trovare delle connessioni, ha fatto un esercizio di palestra mentale, ha svolto la sua funzione di elaboratore dati.
Nella maggior parte dei casi, però, negli ultimi anni la domanda “quali sono le più grandi città del mondo in termini di numero di abitanti” viene dettata direttamente a ChatGPT, che in un attimo, con un enorme dispendio di acqua per raffreddare i sistemi che si trovano a migliaia di chilometri preposti ad elaborare le nostre richieste, ci darà una risposta parzialmente esatta o forse completamente esatta.
Salvemini continua dicendo che l’intelligenza artificiale induce all’offloading, “cioè il processo automatico implicito con cui noi finiamo per delegare a strumenti esterni compiti cerebrali come ricordare, organizzare, progettare, creare, mescolare e combinare. E, cosa ancor più grave, diamo per buoni i risultati senza troppo analizzarli o valutarli (…). Precipitati nel tritacarne dell’IA, ci lasciamo sprofondare in un processo che riduce i nostri meccanismi di difesa emotivi e diventiamo poco o per nulla portati a riflettere attivamente sul risultato raggiunto“.
A questo punto, se ci caliamo nel contesto della scuola, degli studenti e dei compiti, quale riflessione possiamo fare a proposito di questa nostra nuova amica geniale? Quasi tutti gli studenti, anche i più meritevoli, sono tentati quotidianamente a chiedere un aiutino all’IA. Un emerito rettore di un’università portoghese, qualche mese fa, scriveva che l’intelligenza artificiale sta diventando il più grande competitor all’interno degli atenei, quasi come se volesse prendere il posto degli insegnanti in carne ed ossa.
Gli studenti la usano, si fidano e ne abusano. L’unica soluzione, scriveva il rettore, sarebbe quella di tornare nuovamente agli esami orali, alla scrittura a mano, proprio come nelle prime università medievali, che si basavano solo e unicamente sui testi orali. Logicamente, la proposta del rettore è una provocazione, poiché sarebbe impossibile sostenere esami orali per migliaia di studenti. Tuttavia, l’università e la scuola non devono ignorare il problema, bensì cercare di trovare una risposta e domare le capacità dell’intelligenza artificiale al servizio dei nostri studenti.
Salvemini chiude il suo articolo scrivendo: “Sarà il tempo a dirlo, ma bisogna che l’aiuto tecnologico non si sostituisca all’immaginazione umana, bensì l’accompagni, la solleciti e l’aiuti. Mai smettere di capire ciò che si sta facendo (…). L’algoritmo è lì per rafforzare l’intuito e per farci operare meglio. Ma senza smettere, per una nuova comodità o per una nuova abitudine, di pensare davvero. Rimanendo protagonisti“.
