I giovani della generazione Z soffrono di ansia e di depressione, non tutti ovviamente ma un gran numero. Non sono io a dirlo, ma lo affermano gli studi e le statistiche che arrivano dai paesi occidentali. Il tasso di suicidi è aumentato, così come sono sempre più frequenti i disturbi correlati all’autolesionismo o semplicemente i giovani che scelgono di rinchiudersi in casa (abbiamo già affrontato questo tema in un precedente articolo sulla fobia scolare).
Chi sono i giovani della generazione Z?
Sono quei ragazzi nati tra il 1995 e il 2010, quei giovani che erano troppo piccoli per brindare al nuovo millennio o rimanere attoniti e impauriti di fronte alle torri gemelle trafitte da un aereo dirottato. Sono ragazzi che intorno al 2010 si sono ritrovati a giocare con uno strumento chiamato smartphone, un ibrido tra una console di videogioco e un telefono per chiamare i genitori, un mostro onnivoro colorato e accattivante che in pochissimo tempo ha conquistato i loro cuori, anzi dovrei dire il loro cervello. Lo smartphone è diventato il loro migliore amico: non li annoia mai, ascolta con loro la musica più cool, è sempre disponibile, riserva loro sempre qualche sorpresa come una nuova app, un nuovo social, un nuovo challenge.
I ragazzi Z si frequentano poco, per frequentazione intendo un ritrovo da qualche parte, una partita di pallone, un giro di shopping con le amiche. Gli Z si ritrovano online, in quell’universo senza confini del web, si conoscono tutti, anche se non si sono mai visti, sono meno interessati al sesso ma hanno un accesso illimitato alla pornografia. Le piattaforme online studiate appositamente per questi giovani sono state progettate per creare dipendenza, sono trappole che divorano tutto il tempo libero dei ragazzi, a volte anche le notti.
Tutti i giovani, non solo gli Z, sono costantemente connessi: attendono messaggi, inviano like, spiano recensioni, sono sommersi da notifiche.
Le testimonianze dei genitori
Qualche giorno fa la Signora S., madre di un nostro studente, mi ha raccontato che il figlio P. non dorme più, passa ore a giocare alla console connesso ai suoi amici e contemporaneamente risponde a messaggi sui gruppi di WhatsApp. È preoccupata, è diventato schivo, parla poco, esce solo per venire a scuola, trascorre i pomeriggi a interagire con i suoi compagni che vivono a poche vie di distanza. In effetti, in P. c’è qualcosa che non va, gli insegnanti dicono che arriva spesso in ritardo, che è assonnato, a volte appoggia il capo sul banco dicendo che è stanco, che ha mal di testa. Non disturba i compagni, anzi vaga nel suo mondo onirico, è taciturno, infilato nella sua felpa extralarge con la mano costantemente in tasca a contatto con il suo smartphone, sembra che abbia perso qualcosa, in effetti ha perso il sorriso.
Anche R. è un ragazzo che è cresciuto a pane e smartphone. La mamma mi ha raccontato che R. da piccolo faceva spesso i capricci, era volitivo e un pizzico testardo. Così quando i genitori andavano a cena o a ritrovi con amici, il piccolo R. si intratteneva con il telefono della mamma, giocando a improbabili cacce al tesoro e muovendo le sue dita sul touchscreen. R. fa parte di quella generazione che non ha giocato in giardino, non ha trascorso tempo libero all’aperto, non ha provato cosa vuol dire annoiarsi, non è stato un bambino che ha fatto esperienza.
Da insegnante e da Dirigente Scolastico posso dire che i bambini e i ragazzi devono fare esperienza, intendendo per esperienza provare, sbagliare, e rimettersi in piedi. I bambini fin da piccoli devono assumersi dei rischi e non avere costantemente il paracadute di un adulto che potrebbe venir loro in aiuto. I bambini devono scegliere fino a che punto possono rischiare, il mettersi alla prova dà vita a una serie di emozioni positive che diventano una barriera contro l’ansia, un’arma naturale che si attiva ogni volta che una banale e inevitabile situazione di pericolo potrebbe scatenare paura, quindi insicurezza. Un bambino che ha fatto esperienza non si chiuderà in camera, non si costruirà un mondo virtuale di amicizie e non avrà paura di aver paura.
È inutile sostenere che i giovani dovrebbero connettersi di meno e tornare a una vita pre-smartphone.
E quindi cosa fare?
Concludo con una provocazione: propongo che il tempo dei giovani dedicato ai social venga incasellato in una delle tante leggi europee che normano dalle più piccole banalità ai più grandi problemi internazionali e suggerisco ai big della tecnologia di creare uno smartphone così intelligente da annoiare i nostri giovani e farli tornare a una vita di normalità!
A cura della Dirigente Scolastica Nicoletta Coppo